Migranti e demenza
“Un mediatore formale, specie se preparato, può aiutare a gestire in una maniera più precisa quello che viene detto dalla persona che stiamo visitando, riportando in maniera accurata tutte le parole, perché le singole parole sono importanti”.
Simone Pomati, Ospedale Luigi Sacco – Polo Universitario di Milano
Sono sempre di più le persone con una storia di migrazione alle spalle che presentano un problema di decadimento cognitivo e che si rivolgono ai Centri per i Disturbi Cognitivi e le Demenze (CDCD) italiani. Eseguire una valutazione cognitiva corretta in questi pazienti è reso più complesso da alcune barriere linguistiche e culturali che possono presentarsi e anche se spesso alle visite i pazienti anziani vengono accompagnati da un figlio o un altro parente, questi non possono sostituirsi a un interprete, o meglio a un mediatore culturale, professionista.
Interprete e mediatore: formale e informale
A oggi le figure professionali in grado di facilitare la comunicazione tra un paziente migrante e un operatore sanitario sono mediatori culturali e interpreti, che a loro volta possono essere formali e informali. La figura più di supporto è quella del mediatore culturale formale, ritenuta più adatta rispetto a un interprete formale. Quest’ultimo pur avendo una formazione specifica linguistica non appartiene necessariamente alla cultura della persona da valutare, per cui potrebbe essere all'oscuro di alcuni aspetti che invece sarebbe importante comprendere per una valutazione ottimale.
Un mediatore formale è invece una persona che, oltre alla lingua, condivide anche degli aspetti culturali. Questa figura è in grado di informare il clinico riguardo certi tipi di concezioni, convenzioni, sottintesi e punti di vista che un interprete per quanto bravo e preparato potrebbe non cogliere. “Quando valutiamo il funzionamento delle abilità cognitive, il linguaggio è la principale modalità di comunicazione. Tuttavia è importante anche il linguaggio del corpo, l'atteggiamento: reazioni mute che un mediatore formale appartenente alla stessa cultura potrebbe essere in grado di interpretare ma che potrebbero non essere chiare per un interprete”, spiega Simone Pomati, Direttore del Centro per il trattamento e lo studio dei disturbi cognitivi dell’Ospedale Luigi Sacco di Milano.
Per mediatore informale, invece, si intende di solito un familiare, un amico, la persona che accompagna il paziente alla visita: qualcuno che appartenga alla cultura della persona che stiamo visitando ma che non ha una preparazione professionale specifica. È una figura che presenta ovvi vantaggi: spesso accompagna direttamente la persona da valutare e quindi è immediatamente a disposizione; può dare rapidamente una serie di informazioni rispetto al paziente e alla sintomatologia, rappresenta una figura “familiare” e quindi di cui il paziente si fida. Tuttavia, la familiarità con il paziente, l’abitudine alla frequentazione, il legame affettivo possono compromettere l’obiettività del mediatore informale: tende a coprire alcuni difetti o a correggere in modo non dovuto parole o espressioni, oppure a sottovalutare alcune caratteristiche a cui non dà particolarmente peso o che non vuole fare emergere perché potrebbero essere disdicevoli per una persona della sua cultura.
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La situazione nei CDCD italiani oggi
La situazione nei CDCD italiani oggi
La survey, condotta dall’Immidem Study Group nei CDCD italiani , ha valutato la consapevolezza dei centri italiani della necessità di rivolgersi a interpreti e mediatori culturali e l’effettivo accesso e ricorso a queste figure professionali.
Secondo i risultati, la percentuale di CDCD italiani che utilizzano interpreti (10,5%) è risultata nettamente inferiore a quella documentata in due precedenti indagini sui servizi per la demenza condotte in 15 paesi europei (44%-56% dei servizi) e nel Regno Unito (65% dei servizi). Più alta, ma comunque scarsa, la percentuale di centri che ha segnalato la possibilità di rivolgersi a mediatori culturali (37,3%). Nel complesso poi, queste risorse sono risultate disponibili più frequentemente nei centri del Nord Italia rispetto a quelli del Centro e del Sud. Infine, solo nel 6,7% dei centri era disponibile materiale informativo per i pazienti e i loro familiari in una lingua diversa dall’italiano.
Quale può essere il punto di partenza per un decisore di politica sanitaria territoriale, per migliorare l’accesso dei centri alle figure professionali necessarie? Secondo Pomati, il primo passo – in questo momento di costruzione di buone pratiche, consapevolezza e strumenti efficaci – dovrebbe essere quello di identificare in ogni territorio uno o due centri esperti a cui riferire i pazienti con problemi cognitivi e che appartengono a culture diverse. “È un discorso simile a quello che si fa nel caso delle malattie rare”, spiega. “Se ci sono troppi centri in cui afferiscono pazienti con malattie rare, ogni centro vede al massimo uno o due pazienti. Al contrario, se si fanno convergere tutti i pazienti nello stesso centro, cresce non solo la consapevolezza del problema ma anche la professionalità necessaria a gestire questo tipo di pazienti. In questo caso, si potrebbe anche riuscire più facilmente a individuare e reclutare con regolarità una serie di figure di mediatori da formare con percorsi di formazione specifica".
Il presupposto per questo tipo di intervento è avere la piena consapevolezza del territorio e delle risorse a disposizione: “Non si può fare lo stesso discorso per una città come Milano, in cui può essere ragionevole che si facciano afferire i pazienti in uno o due centri di eccellenza, o un’intera regione come l’Umbria, nel qual caso – non potendo far spostare i pazienti verso un centro che sta magari a 200 km di distanza – è bene al contrario che ogni centro sviluppi le capacità per gestire la situazione con le risorse a disposizione”.
Organizzare una visita a un paziente con una storia di migrazione alle spalle.
Cosa può fare invece un neurologo in un CDCD che necessita del supporto di un mediatore? La prima raccomandazione di Simone Pomati è – ancora una volta – la consapevolezza del problema, degli ostacoli che può presentare, delle risorse che ci sono sul territorio. “Sapere cosa fanno gli altri centri del suo stesso territorio, informarsi se ci sono centri vicini più specializzati a cui chiedere informazioni, supporto, consigli e programmi, ed eventualmente a cui riferire il paziente: non tutti possono fare tutto, una buona pratica clinica è anche indicare alle persone dove devono andare.
Parte di questa consapevolezza è anche sapere che esiste la possibilità di avvalersi di un mediatore culturale. Questo tuttavia, non sempre entra in gioco alla prima visita – soprattutto se non è presente sempre nel centro ma deve essere reclutato di volta in volta. Spesso al primo incontro con il paziente ci si avvale dell’aiuto dell’accompagnatore, il mediatore informale, con l’aiuto del quale si raccolgono le informazioni relative alla modalità di comparsa dei sintomi, all'impatto che questi hanno sulla quotidianità, all'eventuale presenza di malattie concomitanti, di familiarità, eventuali esami già fatti e soprattutto in relazione ai bisogni che hanno portato alla visita. Non sempre, infatti, è necessaria una valutazione cognitiva approfondita (ad esempio, nel caso di un paziente a cui è già stata fatta una diagnosi e per cui la visita ha scopi medico-legali quali ottenere una certificazione di invalidità).
Gli obiettivi della prima visita sono:
- raccogliere il maggior numero di informazioni già disponibili
- valutare il grado di comprensione da parte del paziente della lingua dell’esaminatore;
- in caso di possibilità base di comunicazione, effettuare una valutazione almeno di screening delle funzioni cognitive;
- valutare la necessità di ulteriori valutazioni più approfondite.
Nell’esecuzione dell’esame neurologico di base, il mediatore informale farà da interprete per indicazioni semplici di azioni da eseguire (“si alzi dalla sedia”, “chiuda gli occhi”, “alzi le mani”, etc). Se il paziente ha un livello di compromissione cognitiva suscettibile di un approfondimento, se ha un livello di vigilanza sufficiente e se le motivazioni che hanno portato alla visita sono gestire un aspetto diagnostico, impostare un trattamento o definire un preciso profilo medico-legale si programma una seconda visita che terrà conto degli impegni di tutte le persone coinvolte: lo specialista, il paziente, il mediatore, il familiare, il paziente.
L’attivazione del servizio di mediazione passa attraverso il servizio sociale di riferimento del CDCD. “Reperire un mediatore è difficile”, spiega Pomati, “perché non c'è ancora una familiarità con questo tipo di richiesta. Inoltre, in alcuni contesti i pazienti possono fare parte di moltissime culture diverse, e quindi si può aver bisogno di altrettanti mediatori culturali diversi. L'ideale sarebbe che esistesse una rete di mediatori che hanno già lavorato con il centro, perché riduce la necessità di training del mediatore e anzi, la costante possibilità di lavorare insieme migliora anche le capacità di vedere i diversi punti di vista”.
Gli step della visita
Prima della visita
Una volta acquisita la disponibilità del mediatore, lo specialista contatta direttamente questa figura, per lo meno telefonicamente, per:
- registrare le disponibilità logistiche (giorni e orari in cui può partecipare alla visita);
- illustrare al mediatore la situazione del paziente,
- spiegare quello di cui si ha bisogno e come si dovrebbe comportare con il paziente (non aiutare il paziente, non cambiare parole se alcune non sembrano corrette, etc), illustrare quali sono alcuni aspetti importanti di cui tenere conto durante la visita;
- farsi dire dal mediatore alcuni aspetti chiave legati alla cultura del paziente dei quali è importante essere consapevoli.
Sempre prima della visita è necessario preparare dei materiali: il testo delle domande e delle istruzioni che il mediatore dovrà dare al paziente. Questo materiale verrà consegnato e illustrato al mediatore in un breve briefing subito prima della visita. All’inizio della visita è importante presentare il mediatore al paziente e al familiare che lo accompagna per poi proseguire alla valutazione in presenza del neuropsicologo, del mediatore e del paziente. Infatti, salvo casi particolari in cui il paziente si sente a disagio se non c'è un familiare, quest’ultimo non è presente nell’ambito della valutazione.
Durante la visita
Durante la valutazione cognitiva il mediatore fornisce le istruzioni al paziente, traducendo dallo scritto che gli è stato consegnato prima. Le risposte vengono acquisite dal mediatore in maniera indipendente dal neuropsicologo il quale è sempre presente e osserva quello che succede.
Dopo la visita
Alla fine della valutazione, il neuropsicologo e il mediatore devono prendersi il tempo per un debriefing in cui condividono le osservazioni e esaminano le risposte, poi il neuropsicologo stende il referto e successivamente comunica al paziente e al suo familiare i risultati della valutazione.
Risorse
- Canevelli M, Cova I, Remoli G, et Al. ImmiDem Study Network; ImmiDem Study Group. A nationwide survey of Italian centers for cognitive disorders and dementia on the provision of care for international migrants. Eur J Neurol. 2022 Feb 21. doi: 10.1111/ene.15297. Epub ahead of print. PMID: 35189011.
- Nielsen TR, Vogel A, Riepe MW, de Mendonça A, Rodriguez G, Nobili F, et al. Assessment of dementia in ethnic minority patients in Europe: a European Alzheimer’s Disease Consortium survey. Int Psychogeriatr. 2011 Feb;23(1):86-95.
- Brown S, Livingston G, Mukadam N. A National Memory Clinic Survey to Assess Provision for People from Diverse Ethnic Backgrounds in England and Wales. Int J Environ Res Public Health. 2021 Feb 4;18(4):1456.
- Franzen S, European Consortium for Cross-Cultural Neuropsychology. Cross-cultural neuropsychological assessment in Europe: Position statement of the European Consortium on Cross-Cultural Neuropsychology (ECCroN). Clin Neuropsychol. 2021; 1-12